(foto: Getty Images)
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Sedici milioni di schede elettorali partiranno il prossimo 12 settembre e il verdetto si conoscerà dopo due mesi. Settimana prossima in Australia inizia il lungo processo per il referendum sul matrimonio tra persone dello stesso sesso. È una consultazione popolare sui generis, quella che dovrà determinare se gli australiani sono a favore dell’equiparazione tra le nozze etero e gay. Il quesito arriverà via posta, gli elettori potranno scegliere se partecipare o meno (a differenza degli altri referendum, che sono obbligatori) e il risultato non sarà vincolante. L’ultima parola in materia spetta comunque al parlamento.

Perché, allora, spendere 122 milioni di dollari australiani (pari a 97 milioni di dollari Usa) per un referendum dal risultato incerto? Scappatoie della politica. Di fatto, questo voto popolare assomiglia più a un’analisi statistica su larga scala delle opinioni degli australiani sui diritti degli omosessuali. Opinioni però già note. Una ricerca del Pew Research Institute, datata 2013, dimostra che il 79% degli australiani accetta l’omosessualità. È una tra le percentuali più alte al mondo, insieme a quelle di Spagna (88%), Germania (87%) e Canada (80%). Nei giorni scorsi l’istituto di ricerche australiano Newspoll ha diffuso un sondaggio, da cui risulta che il 63% degli elettori è a favore del matrimonio egualitario. I deputati, insomma, avrebbero già contezza di ciò che chiedono gli elettori.

Per questo le associazioni lgbt si sono battute affinché fosse il parlamento a pronunciarsi, così avrebbe messo la parola fine a una battaglia che va avanti dal 2004. In quell’anno, l’allora primo ministro conservatore John Howard modifica il Marriage Act per specificare che il matrimonio è solo “l’unione tra uomo e donna”. Dieci anni dopo, il premier Tony Abbott, sempre conservatore, capitola alla richiesta di indire un referendum. Le opposizioni però gli negano il via libera, proponendo di votare direttamente in parlamento l’equiparazione del matrimonio.

E così la patata bollente è finita sulla scrivania dell’attuale primo ministro, Malcom Turnbull, anch’egli dell’ala conservatrice. È il nuovo alleato nel Pacifico di Donald Trump, che lo ha arruolato per ammorbidire i cinesi nella gestione della crisi nordcoreana. Il premier australiano ha deciso di non decidere. Ha indetto un referendum, non vincolante. E ha promesso che, se vincerà il sì al matrimonio egualitario, proporrà al parlamento di votare, ben sapendo che i suoi alleati conservatori lo hanno già minacciato di affossare la legge.

A differenza dell’Irlanda, dove un referendum sul matrimonio egualitario era necessario perché si modificava la Costituzione, in Australia la partita è nelle mani del parlamento. I cittadini riceveranno via posta la scheda e dovranno ricordarsi di rispedirla al mittente, al più tardi entro il 6 novembre. Agli elettori sarà chiesto: “La legge dovrebbe essere cambiata per consentire alle coppie dello stesso sesso di sposarsi?

Da mesi in Australia i fronti del sì e del no si scontrano a suon di campagne di comunicazione. In particolare l’ala più conservatrice, la Coalition for marriage, agita lo spettro che un’equiparazione del matrimonio alle coppie omosessuali avrebbe effetti dannosi sulla sessualità dei bambini. Australian Marriage Equality, l’organizzazione del sì, si è battuta per bloccare il referendum e ottenere un voto in Parlamento. Ora si aspetta che l’80% delle schede elettorali sia rispedito a due giorni dalla consegna. Il metodo del voto postale però non piace. “Dire a un gruppo di persone che i loro diritti non possono essere decisi dal Parlamento ma, al contrario, devono essere stabiliti da un processo separato manda un chiaro e terribile messaggio”, ha dichiarato il direttore esecutivo del comitato del sì, Tiernan Brady. Con un rischio concreto dietro l’angolo: tanto rumore per nulla.

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