Ieri l’Istituto nazionale di statistica (Istat) ha diffuso i dati sul mercato nel lavoro in Italia nel secondo trimestre dell’anno. In estrema sintesi, l’andamento tra aprile e giugno appare caratterizzato “da una prosecuzione della crescita dell’occupazione e della diminuzione della disoccupazione”. Rispetto al trimestre precedente, in Italia ci sono 78mila persone in più che lavorano. Se si confrontano i dati con lo stesso periodo del 2016, i nuovi occupati sono 153mila. Questi numeri hanno suscitato gli entusiasmi della politica. Lo stesso primo ministro, Paolo Gentiloni, cauto nelle uscite pubbliche, ha twittato un commento soddisfatto.
#Istat Disoccupazione ai minimi dal 2012. Buoni risultati da jobs act e ripresa. Ancora molto da fare su lavoro ma tendenza incoraggiante
— Paolo Gentiloni (@PaoloGentiloni) September 12, 2017
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La lettura di questi risultati, però, riserva sorprese più amare. Come evidenzia Francesco Seghezzi, sempre su Twitter, gli stessi dati dell’Istat dimostrano che il mercato del lavoro è ancora fragile. Seghezzi è il direttore della Fondazione Adapt, un centro di studi creato nel 2000 dal professor Marco Biagi e focalizzato sui temi del lavoro e dell’economia. “In Italia lavora solo il 38% della popolazione residente”, twitta allegando un grafico dell’Istat.
In Italia lavora solo il 38% della popolazione popolazione residente. Questo nuovo grafico @istat_it parla più di tanti dati. pic.twitter.com/oICB3h0ZPW
— Francesco Seghezzi (@francescoseghez) September 12, 2017
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Il cartogramma mostra la ripartizione tra occupati, inattivi e persone in cerca di lavoro nella popolazione italiana. I primi sono il 38,3% e la fetta maggiore è rappresentata dai dipendenti fissi a tempo pieno: 20,3%. Il 4,7% cerca un impiego mentre il 22,3% si colloca nella categoria degli inattivi. La percentuale maggiore riguarda chi non cerca e non è disponibile a lavorare (17,1%).
Il restante 34,7% di italiani non è in età da lavoro. La maggior parte sono gli anziani sopra i 64 anni. Sono il 21,1%, un italiano ogni cinque, e sono destinati ad aumentare. Di fatto, è occupata “una persona su tre – osserva Seghezzi su Youtube -. Significa che un italiano occupato lavora per mantenere se stesso e altre due persone”. Tuttavia, “il dato veramente preoccupante” per il numero uno di Adapt è quello riferito agli inattivi.
Il confronto con i dati del 2016, inoltre, mostra che il Jobs Act non ha avuto effetti sul mercato del lavoro, a dispetto di quanto sostenuto da parlamentari e ministri del Pd. Il decreto avrebbe dovuto stimolare l’assunzione di giovani a tempo indeterminato. Se è vero che gli occupati sono aumentati in dodici mesi dello 0,7% e che i dipendenti sono cresciuti del 2,1%, la spinta arriva dai contratti a termine. In un anno quello a tempo pieno crescono del 10,2% (178mila unità) e quelli part time del 13,6% (100mila unità). Di fatto hanno attutito il crollo delle partite Iva, calate in un anno di 203mila unità.
Di fatto, quindi, il Jobs Act non è riuscito nell’intento di stabilizzare l’occupazione giovanile. Il mercato del lavoro è andato avanti da solo e l’Italia riflette andamenti globali: carriere più discontinue, passaggi da un contratto all’altro, posizioni più precarie. Lo scrive la stessa Istat: “Continuano a crescere a ritmi sostenuti le posizioni in somministrazione che aumentano del 4% in termini congiunturali e del 22,2% su base annua”. Il lavoro, quindi, c’è, ma non nella forma con cui lo avrebbe voluto il governo. Anche perché le posizioni fisse sono ancora occupate da lavoratori più anziani, che non possono andare in pensione. Per l’economista Mario Seminario “la ripresa porta con sé una crescita dell’occupazione, con forte predominanza di quella a termine, cioè l’opposto dell’obiettivo strategico del Jobs Act”.
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